lunedì 12 dicembre 2016

martedì 29 novembre 2016

INCOERENZA EDUCATIVA. Quando mamma e papà non sono d'accordo.



Una delle problematiche più diffuse tra le coppie di genitori nell’educazione dei propri figli è l’incoerenza educativa.
Cosa intendo per “incoerenza educativa”?
Intendo con questa espressione la differente concezione di cosa voglia dire educare un figlio, quali regole fargli seguire, come gestire i rimproveri, i cosiddetti “capricci” e così via…
Quante volte ci è capitato di assistere, o vivere, situazioni in cui uno dei due genitori rimprovera il figlio e l’altro interviene disconfermando e screditando il coniuge? Oppure in cui ad esempio la mamma si lamenta del disordine in casa e il papà dice al figlio con aria di complicità “lasciala stare lo sai che è esagerata!”. Ammesso che la mamma possa davvero essere “esagerata” nel pretendere l’ordine da parte di un bambino, un intervento come quello del papà a cosa serve? A chi serve? All’interno di quale relazione si inserisce?
È un intervento che nulla ha a che fare con il bambino, che non riguarda lui, ma che lo utilizza in quanto strumento per mettere in valore se stessi a scapito dell’altro o per colpire l’altro. Io parlo con il bambino, screditandoti, ed in questo modo uso mio figlio come strumento per far sì che il bambino abbia di me un’immagine positiva o per dirti che non approvo il tuo comportamento, che non condivido le tue priorità. In sintesi “io mi valorizzo e muovo una critica nei tuoi confronti, ma non lo faccio direttamente, ma attraverso il nostro bambino”.
Questo tipo di comportamento, purtroppo molto più frequente di quello che si creda, se è vero che crea una complicità tra uno dei genitori ed il figlio, non aiuta di certo il bambino nel suo sviluppo e nella sua crescita. Il bambino, infatti, ha più bisogno della complicità tra i suoi genitori che della complicità tra uno dei due e lui, perché la complicità tra i due genitori, l’intesa sullo stile educativo gli dà una sicurezza, un punto di riferimento stabile, al quale contrapporsi se è il caso, facendo i capricci per esempio, ma in ogni caso non lo confonde, non lo destabilizza. Ed è questo quello che conta! Poiché un bambino destabilizzato, che non ha dei riferimenti chiari e precisi, che non capisce cosa sia giusto e cosa sbagliato, spesso manifesta questo disorientamento con comportamenti fortemente disturbanti quali iperattivitàaggressivitàimpulsività, tutti comportamenti che mettono a dura prova gli equilibri familiari, che spesso vengono messi in atto anche nel contesto scolastico, con gli insegnanti, con i compagni, creando al bambino anche grosse difficoltà di socializzazione, di accettazione da parte degli altri.
Ma perché tante coppie non riescono ad avere un unico stile educativo?
Ricordiamoci che ogni mamma ed ogni papà sono stati figli, hanno avuto dei modelli genitoriali e dei modelli educativi che nel momento in cui divengono genitori ritornano, si rendono presenti, in maniera più o meno inconsapevole.
Ed allora avremo chi ha avuto una determinata educazione e ritiene che sia stata giusta e tende a riproporre lo stesso stile e modello, chi vi si contrappone energicamente, chi è alla ricerca di un modello altro, magari informandosi, leggendo, documentandosi.
I guai iniziano quando ci si trova su posizioni nettamente contrapposte, “si mangia seduti a tavola”, “dai ma è piccolo che ci fa se mangia in giro per casa”, “si va a letto presto”, “ma che vuoi che sia se sta alzato ancora un po’”, “non hai rispettato una regola della famiglia ed allora ti darò questa punizione”, “ma quale punizione, che esagerazione!”. Gli esempi potrebbero essere infiniti.
Verrebbe da pensare “poveri figli”! Come può un bambino orientarsi in questa confusione, come può capire cosa fare e cosa non fare, cosa sia giusto e cosa sia sbagliato?
Purtroppo molte volte nelle relazioni familiari si perde di vista il vero obiettivo del creare una famiglia, cioè creare un luogo di scambi affettivi, di comunicazione, di aiuto reciproco, di sicurezza. Molte volte le famiglie si trasformano in veri e propri campi di battaglia, in cui “farsi la guerra”, in cui prevaricare l’altro, imporre il proprio modo di vivere, etc.
Queste dinamiche vengono accentuate con l’arrivo di un figlio. Ognuno dei due genitori penserà di essere nel giusto, che il proprio modo di concepire la crescita, lo sviluppo, l’educazione del bambino sia quello giusto, se l’altro è d’accordo bene, se non è d’accordo sta sbagliando.
È molto difficile mettersi in discussione, pensare che forse si stiano commettendo degli errori, che qualcosa forse vada modificata. Ma purtroppo è l’unica strategia possibile per ritrovare la serenità e per garantire ai nostri figli un luogo sicuro, un luogo protetto, uno sviluppo sereno ed armonico.
Cosa fare allora?
Innanzitutto il proprio modo di concepire la crescita e l’educazione di un figlio va discusso ancor prima che il bambino nasca, è importante anche durante la gravidanza che i due genitori si confrontino su come ognuno di loro vive questo momento, sulle proprie emozioni, sulle proprie aspettative circa la nascita del bambino, su quali saranno le regole della propria famiglia, le priorità da perseguire, etc.
Inoltre è di fondamentale importanza che qualunque screzio nasca, in seguito ad un comportamento del bambino, non venga discusso davanti al bambino, contrastandosi a vicenda, ma “in separata sede”.
Se un genitore fa un intervento e l’altro non è d’accordo in quel momento deve assecondare l’intervento dell’altro, discutendone successivamente e non alla presenza del bambino. Se un bimbo rimproverato dal papà va a rifugiarsi tra le braccia della mamma, è giusto che la mamma lo consoli e lo conforti ma allo stesso tempo non può e non deve criticare il papà che l’ha rimproverato, e viceversa naturalmente.
I bambini sono anche molto più furbi di quello che spesso pensiamo e via via che cresceranno utilizzeranno sempre più a loro vantaggio i contrasti tra i genitori per ottenere ciò che vogliono, per non rispettare le regole familiari. Sapranno benissimo come provocare il padre o la madre, farli adirare ed innescare una lite tra i due e come recita un detto popolare “tra i due litiganti il terzo gode”.
Il problema è che il “godimento” di cui si tratta non è sempre un reale vantaggio per il figlio, a lungo termine. Se non voglio studiare e faccio perdere le staffe a mia madre, a quel punto interviene mio padre e se la prende con lei perché urla sempre, e in tutto questo trambusto io non studio, qual è il vantaggio che ne ottengo? Non studiare! Certo sul momento è un bel vantaggio ma poi?
Tante volte è questo ciò che accade, ci si concentra più sulle relazioni conflittuali che sul reale compito che un genitore ha: garantire al proprio figlio le migliori condizioni possibili perché possa crescere bene e diventare un giorno un adulto capace di costruirsi la sua vita e le sue relazioni affettive.

Dott.ssa Roberta La Barbera
Psicologa e Psicoterapeuta

giovedì 10 novembre 2016

LA GELOSIA DEL FRATELLO MINORE




Oggi proponiamo un articolo molto interessante su un argomento poco trattato, con il quale invece, ogni genitore che abbia più di un figlio si trova a fare i conti. L'articolo è a cura di Mamma Medico, blog con consigli e informazioni per la salute dei bambini.


C’è un argomento caldo, anzi caldissimo che avevo trattato diverse volte in passato ma che ora torna prepotentemente, un evergreen insomma.
Di che si tratta? Della gelosia fra fratelli. Ne hanno scritto in questi giorni altre mamme blogger e anche io avevo in serbo il post da tempo. Perché ne scrivo oggi? Non per fare la “copiona”, ma nella speranza che qualche lettore “illuminato” abbia qualche consiglio.
Quando pensiamo alla gelosia fra fratelli, pensiamo sempre a quella che il fratello maggiore manifesta verso il minore.
E il motivo è chiaro.
Un bimbo che fino a quel momento è stato da solo ha ricevuto tutte le attenzioni dei genitori, non ha dovuto dividere con nessuno il loro tempo, il loro affetto, non ha dovuto dividere con nessuno spazi e giochi. Tendenzialmente il piccolo figlio unico diventa il reuccio di casa stra-amato, stra- coccolato.
Quando arriva un fratello per forza di cose cambiano gli equilibri, la mamma si assenta per qualche giorno e torna con in braccio l’altro bambino. Un piccolo bambino che piange e reclama tutte le attenzioni. Un piccolo bambino a cui non si può dire di aspettare se piange, se ha fame o ha bisogno di essere cambiato. Al primogenito si. Il primogenito è grande. È grande anche se ha due anni e proprio grande non è. Così iniziano i problemi noti e stranoti. Si tratta di gelosia. Gelosia che tutti danno per normale. Anzi. Sarebbe strano se non ci fosse.
Io stessa da sorella maggiore me la ricordo bene. Avevo 4 anni quando è nata mia sorella. È cambiato tutto nella mia vita anche perché negli anni ‘70 non c’erano certo le accortezze in materia di psicologia del bambino che ci sono oggi. E mi ricordo bene che seppellivo quel sentimento di “odio” verso di lei che mi faceva sentire cosi’ in colpa quando riemergeva.
Me lo sono ricordata cosi’ bene che quando aspettavo microba e poi quando è nata, tutte le accortezze, le attenzioni, erano per supernano. Siamo stati anche fortunati perché microba fino ad un anno non si è mai sentita. A parte le esigenze fisiche non richiedeva altro. Dove la si metteva stava, pendeva dalle labbra del fratellone che la adorava. Nessuna necessità di rivedere gli equilibri famigliari, nessuna turbolenza nella vita di supernano.
Fino all’anno di microba appunto.
Poi sono sorti i problemi a cui non ero preparata. Quei problemi che ancora oggi faccio fatica a gestire.
Microba si è accorta di esistere. Microba ha cominciato a pretendere una sua collocazione. Microba ha messo a fuoco il fratello in modo diverso. Non era più solo il bimbo da seguire ed emulare, era quello che le portava via la mamma perché i minuti della buonanotte prima equamente divisi dovevano essere solo per lei; era quello che attirava le attenzioni degli estranei o dei nonni o degli zii quando ha iniziato la prima elementare ed orgoglioso mostrava zaini e quaderni; era il super sportivo che riceveva i complimenti dai maestri.
E microba?
Microba ha deciso che doveva andare a scuola quando il tempo della scuola primaria era ed è lontanissimo; ha preteso zaino e quaderni; alla sera deve fare i compiti e con caparbia da sola ha imparato a scrivere numeri e lettere; deve essere altrettanto brava negli sport: lo scorso anno sotto una tormenta di neve ha imparato a sciare non lamentandosi mai, ha deciso che deve nuotare nell’acqua alta senza braccioli, vorrebbe giocare a tennis e ha messo il muso quando le è stato detto che è troppo piccola.
Tutto ciò potrebbe essere positivo, ma, c’è un ma. Quando non può, quando non ottiene quando si rende conto dei suoi limiti (d’età) quando supernano, che nel frattempo sta molto in disparte, ha veramente bisogno, scatta il trip. Microba si trasforma, diventa una iena. Calci, pugni, morsi verso di me o verso il fratello, verso i suoi giochi, verso gli oggetti di scuola. Minaccia di andarsene di casa o al contrario invita poco gentilmente noi ad andarcene, sostenendo che nessuno l’ascolti, le voglia bene. Impossibile descrivere quello che succede a casa nostra in quei momenti. Niente e nessuno la può calmare. E la “pazzia” scatta all’improvviso. A volte senza neppure un apparente motivo.
All’inizio mi sentivo impotente. Ho alternato momenti di resistenza passiva a momenti di resistenza attiva. Ho comprato libri. Per me. Per lei. Uno molto carino si intitola “Giallo di gelosia” ed è la storia di una mamma con 3 figli che si clona in 3 mamme causa la gelosia dei suoi bambini.
Una delle ultime volte dopo aver contato fino a 1000 l’ho presa in braccio con calma (anche se dopo che aveva pasticciato il quaderno di matematica del fratello avevo solo voglia di prenderla a sberle-e non mi vergogno a dirlo) e le ho parlato con calma. Le ho spiegato che lei doveva essere fiera di avere un fratello maggiore. Innanzitutto perché stare da soli è brutto ma soprattutto perché lei era stata scelta oltre che dalla mamma e dal papà anche da suo fratello che fino da subito l’aveva amata tantissimo.
Queste parole l’hanno colpita moltissimo. Stavo quasi tirando un sospiro di sollievo quando mi è caduta addosso un’altra tegola.”mamma, va bene, ma come ho fatto ad entrare nella pancia?” …
Cosa le ho raccontato sarà argomento di un altro post!



http://www.mammamedico.it/psicologia/la-gelosia-del-fratello-minore/

mercoledì 9 novembre 2016

LETTONE SÌ… LETTONE NO



Una delle domande che spesso mi viene posta dai genitori è “come faccio a far uscire mio figlio dal lettone?

Il problema è controverso e il dibattito tra chi è favorevole al “co-sleeping” (come lo chiamano gli anglosassoni) e chi è contrario è molto acceso.

Il mio articolo di oggi non vuole entrare nel merito di ciò che sia giusto e ciò che sia sbagliato ma vuole fornire uno spunto di riflessione in merito a questa tematica molto sentita da tutti i genitori.
Di solito quando mi si pone la domanda che ho esplicitato all’inizio la mia risposta è un’altra domanda: “come mai suo figlio dorme nel lettone?

A questa domanda seguono le risposte più differenti: a volte perché il bambino sta male e richiede un maggiore controllo durante il sonno, altre volte perché la mamma allatta e in questo modo risparmia un po’ di energia e riprende subito sonno, oppure il bimbo lasciato nel suo lettino piange e si tranquillizza con il contatto fisico e con il calore materno, etc. etc.

Suddividerei le risposte, generalizzando, in due grandi filoni:

lettone come esigenza del bambino
lettone come esigenza dei genitori 

Volendosi focalizzare sul lettone come esigenza dei genitori (spesso più delle mamme), molte volte le risposte che ricevo sono relative ad una soddisfazione che le madri stesse ottengono dal dormire insieme al figlio, senza che sia stato il bambino a richiedere di dormire con i genitori:

è davvero una meraviglia dormire con il mio piccolo. Mi sveglia la mattina o quando si addormenta mi accarezza
siamo un tutt’uno, lui dorme sempre sul mio petto e lo tengo abbracciato
averla vicina in fondo ci piace
perché ci piace tanto!
certo prendiamo calci e pugni ma in fondo è bellissimo, non torneranno mai questi tempi!
perché, lo confesso, mi piace tenerla lì
amo mettere il mio cucciolo nel lettone per puro e semplice piacere! Il tempo vola e... voleranno gli anni ed io mi voglio godere a pieno il mio cucciolino
mi piace dormire con mio figlio.


Tutte queste risposte indicano come ci siano delle situazioni in cui la madre (o entrambi i genitori) provano piacere nel dormire con il loro piccolo, che quindi la scelta di dormire insieme a lui non parta da una richiesta del bambino, che magari ricerca il contatto con la mamma, gli odori, il calore, ma da un bisogno della mamma stessa di condividere il sonno con il suo bambino.

Ci si potrebbe chiedere cosa ci sia di male in questo? Cosa ci sia di sbagliato?

Se è vero che i bambini hanno bisogno del calore materno, dell’amore, dell’affettività, delle coccole, è altresì vero, però, che fin da piccolissimi i bambini hanno bisogno del limite, hanno la necessità che il rapporto con la madre non diventi un rapporto di fusionesimbiotico, in cui può rischiare di venir meno la soggettività del bambino.

Risposte come quelle esposte sopra, indicano il rischio che possa esserci nella mamma una tendenza ad una relazione fusionale e simbiotica con il proprio bambino, una relazione che porta ad ostacolare il sano sviluppo verso l’autonomia e l’indipendenza del bambino.

Certamente questa risposta da sola non può bastare a definire una situazione potenzialmente “pericolosa” per la crescita del bambino, ma può essere un campanello d’allarme che può, quanto meno, fare insospettire.

In questi casi, quindi, dietro la domanda esplicita “come faccio a far uscire mio figlio dal lettone” si cela il desiderio implicito che ciò non avvenga, e i bambini sono molto sensibili al desiderio materno, anche a quello non esplicitato, non detto, per cui con il loro comportamento di rifiuto ad abbandonare il lettone rispondono implicitamente al desiderio della mamma, che rimangano sempre piccoli, sempre vicini, che non si separino dai genitori.

Un altro aspetto da non sottovalutare è poi il significato simbolico del lettone. Il letto matrimoniale, così come lo indica la parola stessa, è il luogo della coppia, è il luogo di mamma e papà, e in quanto luogo simbolico è carico di tutta una serie di significati importanti per il bambino. 
Così come ho già descritto nel mio articolo “RELAZIONE DI COPPIA CON L’ARRIVO DI UN FIGLIO, VITA SESSUALE,MATERNITÀ E PATERNITÀ”, per un bambino non è importante soltanto sapere di essere nato dal desiderio di mamma e papà verso di lui, per un bambino è fondamentale sapere di essere nato dal desiderio di un uomo per una donna e viceversa, di essere il frutto del desiderio di una coppia, dell’amore tra il padre e la madre. Il luogo della coppia, allora, assume quel significato simbolico. 

Ma allora il bambino può sentirsi escluso? 

Certo! Anzi, il bambino deve sentirsi escluso da ciò che circola tra il padre e la madre, in quanto uomo e donna, ed è da tale esclusione che prende vita tutto lo sviluppo affettivo del bambino o della bambina e che un giorno lo o la porterà ad avere delle relazioni affettive sane.

Il bambino deve aver chiaro fin dall’inizio che lui è amato dai suoi genitori, ma che c’è qualcosa tra il padre e la madre che non lo riguarda, che concerne solo loro in quanto uomo e donna.

Tante volte, dopo quella famosa domanda di cui sopra, sono emerse situazioni in cui il bambino nel lettone contribuiva all’allontanamento della coppia, all’esclusione del padre, sfrattato e mandato a dormire nel lettino del bambino, all’alibi perfetto per evitare la sessualità; sono tutte condizioni cliniche evidenti, certo non frequenti, ma neppure molto rare.

Infine un capitolo a parte andrebbe aperto nei casi di separazione, in cui spesso le mamme, rimasto vuoto il posto nel lettone del marito, invitano il figlio o la figlia a dormire lì con loro “per compagnia”. 

Ma questo è un altro argomento che merita una trattazione più approfondita.

martedì 8 novembre 2016

L'ORSETTO DELLE REGOLE




Come possiamo far sì che i nostri figli seguano le regole che abbiamo in famiglia?

Quante volte ci ritroviamo a ripete centinaia di volte le stesse cose senza che ciò ottenga alcun risultato?
Possiamo far seguire le regole in due modi: possiamo imporle oppure possiamo trovare una strategia alternativa, sicuramente molto più funzionale ed efficace.
Per esempio, possiamo inventarci “L’ORSETTO DELLE REGOLE”. 
Che cos’è?
L’Orsetto delle Regole (o qualunque altra immagine si voglia usare) è un’immagine raffigurata in un quadretto in casa che viene scelto dai genitori come “LUOGO DELLA LEGGE”.
Qualunque regola vi sia in casa, qualunque divieto obbligo, viene deciso dall’Orsetto delle Regole.
Questa strategia funziona perché da un lato evita l’utilizzo dell’imperativo da parte dei genitori “l’orsetto dice che alle nove bisogna andare a letto” è diverso da “sono le nove, vai a letto”; dall’altro eventualmente sposta l’aggressività del bambino che deve sottostare alla regola, dal genitore all’orsetto; infine fa sì che anche i genitori siano dal canto loro non tanto i depositari del potere, quanto, a loro volta sottoposti alla legge, a delle regole; tutto ciò faciliterà molto il processo educativo.
Spesso la comunicazione tra genitori e figli avviene, infatti, utilizzando l’imperativo “fai quello, fai questo, rimetti in ordine la stanza, lavati le mani”, etc. etc.
Davanti all’imperativo la risposta dei nostri figli è spesso “no”. 
Come mai? 
Perché l’imperativo trasmette un potere dei genitori sui figli, potere che i figli rifiutano, dicono “no” anche solo per il fatto che glielo abbiamo ordinato noi.
Avrete notato tante volte come la stessa cosa detta dal genitore e detta da un’altra persona abbia un valore differente, al genitore viene detto “ no”, se lo dice qualcun altro viene detto “si”.
Questo avviene perché i figli, naturalmente, si oppongono al potere dei genitori, non si sottomettono, si difendono da esso.
Allora è molto più semplice quando dobbiamo chiedere ai nostri figli di fare qualcosa o quando dobbiamo impedire loro qualcosa, non usare l’imperativo ma spostare il luogo delle regole, il luogo della legge. Non più incarnata dal genitore ma esterna ad esso.
Essere sottoposti alla legge significa dover rendere conto a qualcun altrodella vostra attività di genitore, significa che voi non avete un potere di “vita o di morte” sul vostro bambino, ma che c’è qualcuno che è al di sopra di voi, l’Orsetto, che vi controlla e che vuole conto e ragione di come fate i genitori. Non c’è cosa più minacciante, infatti, di una mamma o di un papà onnipotente, che sa tutto e che decide tutto a suo piacimento. 
L’educazione che voi impartite ai vostri figli non è a piacer vostro. Ma è un’educazione finalizzata al suo benessere fisico, psichico e sociale. Voi avete il dovere di garantirgli una crescita sana, serena e di farne un giorno degli adulti capaci di lavorare, di assumersi delle responsabilità, di divenire a loro volta genitori, di instaurare dei legami sociali, di vivere con gli altri, di cooperare, di provare empatia e solidarietà
Se voi vi ergete a capi indiscussi “la legge sono io” sarete per il vostro bambino sempre minacciosi e dalle minacce ci si difende come si può. Al contrario se vi ponete su un altro piano, più limitato, e questo potere lo spostate all’esterno, allora esso sarà più tollerabile e vivibile.
L’Orsetto delle Regole è una strategia che può essere utilizzata con i bambini piccoli, con i ragazzini più grandi il discorso non cambia, nel senso che anche in questo caso non deve essere il genitore il detentore della legge ma per esempio si può, per ogni regola che deciderete di avere in casa, dare una motivazione altra rispetto alla vostra volontà. “Si va a letto alle nove”, il bambino chiederà “perché?”, “perché studi scientifici hanno dimostrato che un bambino di nove anni (per esempio) deve dormire 10 ore a notte e siccome tu ti svegli alle 7.00 allora devi andare a dormire alle nove per poter essere riposato e poter affrontare la giornata!”
“Prima di mangiare ci si lava le mani” è diverso dal dire “vai a lavarti le mani”, la seconda frase è un imperativo dato da un genitore che dà degli ordini, la prima frase, impersonale, apre anche ad una dialettica “sai perché ci si lava le mani? Perché esistono degli animaletti che sono sulle tue manine e che al contatto con il cibo possono farti venire tanto male al pancino”. Si è passati da un ordine ad una spiegazione in cui il “cattivo” della situazione non è più il genitore che esige un determinato comportamento, ma l’animaletto che fa male al pancino.
Si potrebbe continuare all’infinito con gli esempi ma ognuno di voi inventerà quelli che ritiene più adatti alla situazione. 
Il punto fermo deve essere in ogni caso, a prescindere dall’età del bambino, la capacità di SPOSTARE il luogo della legge, di farne un luogo esterno alla famiglia, un luogo altro dove qualcosa è già stato deciso e al quale non solo il bambino ma anche i genitori devono sottomettersi
Vedrete come il bambino sia molto più propenso a seguire le regole dell’Orsetto piuttosto che le regole dettate direttamente dai genitori.
E se il vostro obiettivo è quello di far sì che i vostri figli diventino delle persone oneste, che sappiano accettare i limiti, le regole che la società impone, che sappiano avere rispetto per gli altri, non c’è migliore strategia di quella di “dare l’esempio”. 
Un genitore che segue le regole sarà un ottimo esempio per un bambino che diventerà domani un adulto.

giovedì 27 ottobre 2016

DOLCE NANNA Come rispettare la fisiologia del sonno dei neonati ed accoglierne il bisogno



Quando nasce un bebè, uno degli argomenti fondamentali, di grande interesse per i neogenitori, è il SONNO.
Il tema del sonno è molto controverso ed è affrontato seguendo varie scuole di pensiero.

In questo articolo cercheremo di far comprendere quale sia la fisiologia del sonno nel neonato, cosa i genitori possano fare per assecondare il bisogno del bambino di dormire, quali siano i fattori facilitanti e quelli che, invece, lo ostacolano.

Innanzitutto va sottolineato che il ciclo sonno-veglia di un bambino è differente dal ciclo sonno-veglia di un adulto.
Per entrambi, il sonno si suddivide in due fasi: la fase REM e la fase N-REM. La REM è una fase di sonno più leggero, è la fase in cui si sogna, la N-REM è la fase di sonno più profondo, che a sua volta è suddivisa in 4 sub-fasi, da 1 a 4 a seconda della profondità del sonno (la 4 è il sonno più profondo).
Mentre noi dormiamo alterniamo queste due fasi, con cicli continui che hanno una durata nell’adulto di circa 90’ e che sono composti all’80% da sonno profondo e solo al 20% dal sonno leggero. Ogni volta che si passa dalla fase 4 della N-REM alla successiva fase REM, attraversiamo unmomento di “vulnerabilità” durante il quale, a seconda delle condizioni interne ed esterne (malesseri, rumori, fame, sete, etc.) possiamo avere dei risvegli. L’adulto, comunque, ha imparato nel corso del suo sviluppo a gestire questi momenti di “vulnerabilità”, attraverso un sistema di filtro e di conseguenza, se non ha dei risvegli, ha la sensazione di avere dormito ininterrottamente per tutta la notte.
Nei neonati il ciclo REM/N-REM dura circa 50’ e non 90’;inoltre, alla nascita, la percentuale di sonno REM e NREM è quasi sovrapponibile. Nel tempo, la fase REM inizia a decrescere: intorno ai tre/cinque anni (variabile da soggetto a soggetto), la fase del sonno che il bimbo trascorre sognando è all’incirca uguale a quella del resto della vita. Altra sostanziale differenza è che le fasi 3 e 4 del sonno profondo (NREM) si definiscono non prima del terzo mese di vita: per questo motivo è veramente difficile che, prima dei tre mesi, un bimbo dorma profondamente. 
Nel bambino piccolo, quindi, i passaggi dalla fase N-REM alla fase REM, con l’inizio di un nuovo ciclo, avvengono ogni 50’, in più il bambino non ha ancora sviluppato un sistema di filtro dai rumori esterni, dalle sensazioni interne, per cui è molto probabile che possa avere dei risvegli alla fine di ogni ciclo di sonno. Il bimbo appena nato si addormenta in fase REM (che dura qualche minuto), per poi entrare nella fase NREM. Potrà svegliarsi in qualsiasi fase; per questo motivo, potrà accadere che alcuni suoi riposini durino anche mezz’ora. Possiamo, pertanto, affermare che la situazione con cui i genitori si incontrano non è quella di un bimbo che “non dorme mai”, ma che ha “continui risvegli”, risvegli dettati dalle caratteristiche neuroanatomiche di un qualsiasi neonato.

In conclusione, quindi, è assolutamente fisiologico che i bambini fino a 3 anni possano risvegliarsi molte volte durante la notte; quindi i risvegli non sono dei “disturbi” ma si verificano seguendo il normale sviluppo neurologico del bambino che, pian piano, gli permetterà di avere una struttura del sonno simile a quella dell’adulto. 

Un’altra fase molto delicata è quella dell’addormentamento. Anche questo momento viene spesso vissuto con ansie, difficoltà, problematiche, che spesso innestano un circolo vizioso: il bambino presenta difficoltà ad addormentarsi, la mamma o il papà si innervosiscono, il bambino percepisce la tensione e le difficoltà aumentano.
Perché il bambino ha difficoltà ad addormentarsi?
Bisogna considerare che per il bambino questo è il momento in cui si separa dalla mamma, in cui avviene il distacco dalle attività svolte durante il giorno e dalle persone per lui importanti, per cui è molto probabile che possa esserci un’ansia da separazione che viene manifesta con nervosismo, irritabilità, pianto.
È importante, quindi, che i genitori abbiano un atteggiamento calmo e rassicurante, in modo da far rilassare il bambino e fargli affrontare questo momento in maniera più serena, al fine di garantirgli anche una buona qualità del sonno.

Per far questo, i genitori possono usare dei piccoli accorgimenti che facilitino il sonno, tenendo conto di alcuni fattori facilitanti quali: 
• un ambiente sereno e privo di stimoli eccitanti (tv, confusione, etc.)
• un rituale da ripetere ogni sera
• la voce della mamma o del papà (racconto di favole e ninna nanna)
• il contatto fisico (essere cullati)
• il co-sleeping
• alcuni alimenti (primo tra tutti il latte)
• un bagnetto rilassante
• il massaggio infantile
• ascoltare ciò che il bimbo ha da raccontare durante il suo addormentamento
• conforto e rassicurazione

Vi sono, altresì, dei fattori che ostacolano il sonno e che rendono la fase dell’addormentamento ancora più difficoltosa:
• attività stimolati e eccitanti (giochi, tv, etc.)
• un ambiente carico di tensione e nervosismo
• alcuni alimenti (ad esempio lo zucchero bianco raffinato, i coloranti, addittivi, glutammato monopodico, aspartame)
• pianto ignorato
• ambiente troppo caldo
• patologie anche lievi (dolori da dentizione, otiti, coliche)
• ambiente sconosciuto
• stress da separazione dalla figura materna o da altre figure stabili di riferimento
• sottoporre il bimbo a troppi cambiamenti contemporaneamente (inserimento al nido, spannolinamento, cambio stanza,…)

Infine un accenno alla frase che comunemente le mamme si sentono ripetere: “ha scambiato il giorno per la notte”. Questa frase non ha alcun fondamento scientifico nei neonati, poiché la regolazione dei ritmi circadiani (l’alternanza sonno/veglia) non è presente fin dalla nascita, ma si va sviluppando man mano che il bambino cresce e man mano che aumenta la produzione della melatonina, la sostanza che regola il ciclo sonno/veglia. L’unico accorgimento, allora, che si può mettere in atto è quello di esporre il bambino alla luce del sole durante le ore del giorno, poiché i raggi solari stimolano la produzione di melatonina. 

In conclusione, ciò che spesso viene chiamato “Disturbo del sonno” con una connotazione negativa e patologica (Disturbo), in realtà è soltanto il normale ritmo dei bambini, è il normale sviluppo fisiologico relativo ad uno dei bisogni primari. Questo ritmo, spesso purtroppo, non è in linea con i ritmi di vita degli adultisempre più frenetici e legati agli orari da rispettare; a causa di ciò, qualcosa che è assolutamente sano e fisiologico, solo perché non segue i ritmi che la nostra società ci impone, diviene patologico e da “curare”.

Potremmo concludere, quindi, affermando che i bambini ci donano “L’elogio della lentezza” e noi dovremmo esser capaci di ricevere questo dono, di apprezzarlo e di valorizzarlo.

Dott.ssa Roberta La Barbera, Psicologa e Psicoterapeuta
Dott.ssa Rossella Russo, Ostetrica

mercoledì 26 ottobre 2016

LA PROFEZIA CHE SI AUTOAVVERA NEL RAPPORTO GENITORI/FIGLI



Il concetto di Profezia che si auto avvera venne introdotto, per la prima volta nelle scienze sociali nel 1948, dal sociologo statunitense Robert K. Merton che la definì “una supposizione o profezia che per il solo fatto di essere stata pronunciata, fa realizzare l'avvenimento presunto, aspettato o predetto, confermando in tal modo la propria veridicità”. A sua volta, Merton si riferì al celebre sociologo americano, William Thomas, che si era già occupato dell’argomento e che aveva postulato quello che è passato alla storia come il Teorema di Thomas: “Se gli uomini definiscono certe situazioni come reali, esse sono reali nelle loro conseguenze”.
Nell’ambito più specifico della psicologia, il ricercatore americano Robert Rosenthal ideò un esperimento di psicologia sociale all’interno di una scuola. Sottopose un gruppo di alunni di una scuola elementare californiana ad un test di intelligenza. Indipendentemente dal risultato del test, riunì alcuni alunni all’interno di un gruppo, comunicando agli insegnati che si trattava di alunni molto intelligenti. Dopo un anno, Rosenthal valutò il percorso scolastico di questi alunni e verificò che tutti avevano migliorato il loro rendimento scolastico divenendo i migliori della classe.
Ciò era avvenuto poiché gli insegnanti, convinti delle abilità e competenze degli alunni, si relazionavano a loro stimolandoli nel loro interesse per gli studi. 
Il modo in cui, quindi, l’insegnante valutava inizialmente l’alunno modificava il suo atteggiamento nei confronti dell’alunno stesso.
In questo caso il risultato era positivo, ma l’effetto Rosenthal (o effetto Pigmalione) può avere anche dei risultati disastrosi se l’assunto di partenza è negativo “questo ragazzo è senza speranza”, “non è motivato”, “non gli piace studiare”, etc. 
In che modo questo concetto sociologico può rientrare nell’ambito della psicologia e riguardare il rapporto genitori/figli?
Quando viene a mondo un bambino, già a partire dal suo concepimento, se non da prima, i genitori iniziano a parlare di lui o di lei (“se avrò un figlio lo chiamerò…...”, “se nascerà una bambina sarà...”, e così via…). Ciò fa sì che il bambino nasca in un bagno di linguaggio, all’interno di un discorso nel quale il bambino è parlato, in cui il bambino infans, che non parla ancora, è inserito nel discorso dell’altro.
Questo discorso è portatore di un desiderio nei confronti del bambino, di aspettative e di frasi che lo concernono che determineranno il modo in cui lui crescerà.
Non è raro ascoltare genitori, nonni, parenti ed amici pronunciarsi al cospetto di un neonato “è bellissimo”, “tutto suo padre”, “tutto sua madre”, “è tranquillo”, “è nervoso” e così via…
Sono queste definizioni che l’altro dà del bambino sulla base di alcune sue percezioni e convinzioni che possono contribuire a quella che abbiamo definito Profezia che si auto avvera.
Ma in che modo può accadere questo?
Nel momento in cui un genitore dà una definizione del bambino: “è buono”, “è nervoso”, “ha un carattere deciso”, “è una peste” fin dai primissimi mesi di vita, il suo atteggiamento nei confronti del bambino stesso sarà influenzato da queste definizioni e dalle convinzioni soggiacenti.
Se la mamma definisce il bambino “disubbidiente” si relazionerà a lui a partire da questa convinzione e metterà in atto dei comportamenti che inevitabilmente metteranno il bambino nella condizione di disobbedire avverando la profezia iniziale, in un circolo vizioso difficile da rompere.
Nella mia pratica con i bambini molte volte mi è capitato di ascoltare dei piccoli che si definivano “monelli”, alla domanda “chi te lo dice?” la risposta è “la mamma, il papà, i nonni, etc.”, cioè l’adulto che si prende cura di lui. Non è il bambino che crede di essere “monello” ma sono gli altri che gli danno questo rimando. 
Quando un bambino si ritrova inserito in una definizione di questo tipo strutturerà la convinzione che sia quello il modo in cui l’altro vuole che sia e si comporterà di conseguenza. Il suo comportamento confermerà la convinzione iniziale dell’adulto e così via in una spirale senza fine.
Queste definizioni, inoltre, impediranno all’adulto di vedere ed ascoltare il bambino, schiacciandolo nella sua soggettività, considerandolo già saputo, conosciuto. La definizione nomina il bambino che si ritrova ingabbiato e spesso impossibilitato ad esimersi dall’essere esattamente come l’altro si aspetta che sia.
Non di rado mi capita di seguire degli adolescenti che per tutta la loro infanzia si sono ritrovati ad essere “bravi bambini”, “i più bravi della classe”, “i migliori” che durante quel periodo di stravolgimento che è l’adolescenza scoprono di essere diversi da come mamma e papà li vogliono, manifestando la loro sofferenza e il loro disagio con comportamenti autolesivi, antisociali, disturbi del comportamento alimentare, etc.