giovedì 27 ottobre 2016

DOLCE NANNA Come rispettare la fisiologia del sonno dei neonati ed accoglierne il bisogno



Quando nasce un bebè, uno degli argomenti fondamentali, di grande interesse per i neogenitori, è il SONNO.
Il tema del sonno è molto controverso ed è affrontato seguendo varie scuole di pensiero.

In questo articolo cercheremo di far comprendere quale sia la fisiologia del sonno nel neonato, cosa i genitori possano fare per assecondare il bisogno del bambino di dormire, quali siano i fattori facilitanti e quelli che, invece, lo ostacolano.

Innanzitutto va sottolineato che il ciclo sonno-veglia di un bambino è differente dal ciclo sonno-veglia di un adulto.
Per entrambi, il sonno si suddivide in due fasi: la fase REM e la fase N-REM. La REM è una fase di sonno più leggero, è la fase in cui si sogna, la N-REM è la fase di sonno più profondo, che a sua volta è suddivisa in 4 sub-fasi, da 1 a 4 a seconda della profondità del sonno (la 4 è il sonno più profondo).
Mentre noi dormiamo alterniamo queste due fasi, con cicli continui che hanno una durata nell’adulto di circa 90’ e che sono composti all’80% da sonno profondo e solo al 20% dal sonno leggero. Ogni volta che si passa dalla fase 4 della N-REM alla successiva fase REM, attraversiamo unmomento di “vulnerabilità” durante il quale, a seconda delle condizioni interne ed esterne (malesseri, rumori, fame, sete, etc.) possiamo avere dei risvegli. L’adulto, comunque, ha imparato nel corso del suo sviluppo a gestire questi momenti di “vulnerabilità”, attraverso un sistema di filtro e di conseguenza, se non ha dei risvegli, ha la sensazione di avere dormito ininterrottamente per tutta la notte.
Nei neonati il ciclo REM/N-REM dura circa 50’ e non 90’;inoltre, alla nascita, la percentuale di sonno REM e NREM è quasi sovrapponibile. Nel tempo, la fase REM inizia a decrescere: intorno ai tre/cinque anni (variabile da soggetto a soggetto), la fase del sonno che il bimbo trascorre sognando è all’incirca uguale a quella del resto della vita. Altra sostanziale differenza è che le fasi 3 e 4 del sonno profondo (NREM) si definiscono non prima del terzo mese di vita: per questo motivo è veramente difficile che, prima dei tre mesi, un bimbo dorma profondamente. 
Nel bambino piccolo, quindi, i passaggi dalla fase N-REM alla fase REM, con l’inizio di un nuovo ciclo, avvengono ogni 50’, in più il bambino non ha ancora sviluppato un sistema di filtro dai rumori esterni, dalle sensazioni interne, per cui è molto probabile che possa avere dei risvegli alla fine di ogni ciclo di sonno. Il bimbo appena nato si addormenta in fase REM (che dura qualche minuto), per poi entrare nella fase NREM. Potrà svegliarsi in qualsiasi fase; per questo motivo, potrà accadere che alcuni suoi riposini durino anche mezz’ora. Possiamo, pertanto, affermare che la situazione con cui i genitori si incontrano non è quella di un bimbo che “non dorme mai”, ma che ha “continui risvegli”, risvegli dettati dalle caratteristiche neuroanatomiche di un qualsiasi neonato.

In conclusione, quindi, è assolutamente fisiologico che i bambini fino a 3 anni possano risvegliarsi molte volte durante la notte; quindi i risvegli non sono dei “disturbi” ma si verificano seguendo il normale sviluppo neurologico del bambino che, pian piano, gli permetterà di avere una struttura del sonno simile a quella dell’adulto. 

Un’altra fase molto delicata è quella dell’addormentamento. Anche questo momento viene spesso vissuto con ansie, difficoltà, problematiche, che spesso innestano un circolo vizioso: il bambino presenta difficoltà ad addormentarsi, la mamma o il papà si innervosiscono, il bambino percepisce la tensione e le difficoltà aumentano.
Perché il bambino ha difficoltà ad addormentarsi?
Bisogna considerare che per il bambino questo è il momento in cui si separa dalla mamma, in cui avviene il distacco dalle attività svolte durante il giorno e dalle persone per lui importanti, per cui è molto probabile che possa esserci un’ansia da separazione che viene manifesta con nervosismo, irritabilità, pianto.
È importante, quindi, che i genitori abbiano un atteggiamento calmo e rassicurante, in modo da far rilassare il bambino e fargli affrontare questo momento in maniera più serena, al fine di garantirgli anche una buona qualità del sonno.

Per far questo, i genitori possono usare dei piccoli accorgimenti che facilitino il sonno, tenendo conto di alcuni fattori facilitanti quali: 
• un ambiente sereno e privo di stimoli eccitanti (tv, confusione, etc.)
• un rituale da ripetere ogni sera
• la voce della mamma o del papà (racconto di favole e ninna nanna)
• il contatto fisico (essere cullati)
• il co-sleeping
• alcuni alimenti (primo tra tutti il latte)
• un bagnetto rilassante
• il massaggio infantile
• ascoltare ciò che il bimbo ha da raccontare durante il suo addormentamento
• conforto e rassicurazione

Vi sono, altresì, dei fattori che ostacolano il sonno e che rendono la fase dell’addormentamento ancora più difficoltosa:
• attività stimolati e eccitanti (giochi, tv, etc.)
• un ambiente carico di tensione e nervosismo
• alcuni alimenti (ad esempio lo zucchero bianco raffinato, i coloranti, addittivi, glutammato monopodico, aspartame)
• pianto ignorato
• ambiente troppo caldo
• patologie anche lievi (dolori da dentizione, otiti, coliche)
• ambiente sconosciuto
• stress da separazione dalla figura materna o da altre figure stabili di riferimento
• sottoporre il bimbo a troppi cambiamenti contemporaneamente (inserimento al nido, spannolinamento, cambio stanza,…)

Infine un accenno alla frase che comunemente le mamme si sentono ripetere: “ha scambiato il giorno per la notte”. Questa frase non ha alcun fondamento scientifico nei neonati, poiché la regolazione dei ritmi circadiani (l’alternanza sonno/veglia) non è presente fin dalla nascita, ma si va sviluppando man mano che il bambino cresce e man mano che aumenta la produzione della melatonina, la sostanza che regola il ciclo sonno/veglia. L’unico accorgimento, allora, che si può mettere in atto è quello di esporre il bambino alla luce del sole durante le ore del giorno, poiché i raggi solari stimolano la produzione di melatonina. 

In conclusione, ciò che spesso viene chiamato “Disturbo del sonno” con una connotazione negativa e patologica (Disturbo), in realtà è soltanto il normale ritmo dei bambini, è il normale sviluppo fisiologico relativo ad uno dei bisogni primari. Questo ritmo, spesso purtroppo, non è in linea con i ritmi di vita degli adultisempre più frenetici e legati agli orari da rispettare; a causa di ciò, qualcosa che è assolutamente sano e fisiologico, solo perché non segue i ritmi che la nostra società ci impone, diviene patologico e da “curare”.

Potremmo concludere, quindi, affermando che i bambini ci donano “L’elogio della lentezza” e noi dovremmo esser capaci di ricevere questo dono, di apprezzarlo e di valorizzarlo.

Dott.ssa Roberta La Barbera, Psicologa e Psicoterapeuta
Dott.ssa Rossella Russo, Ostetrica

mercoledì 26 ottobre 2016

LA PROFEZIA CHE SI AUTOAVVERA NEL RAPPORTO GENITORI/FIGLI



Il concetto di Profezia che si auto avvera venne introdotto, per la prima volta nelle scienze sociali nel 1948, dal sociologo statunitense Robert K. Merton che la definì “una supposizione o profezia che per il solo fatto di essere stata pronunciata, fa realizzare l'avvenimento presunto, aspettato o predetto, confermando in tal modo la propria veridicità”. A sua volta, Merton si riferì al celebre sociologo americano, William Thomas, che si era già occupato dell’argomento e che aveva postulato quello che è passato alla storia come il Teorema di Thomas: “Se gli uomini definiscono certe situazioni come reali, esse sono reali nelle loro conseguenze”.
Nell’ambito più specifico della psicologia, il ricercatore americano Robert Rosenthal ideò un esperimento di psicologia sociale all’interno di una scuola. Sottopose un gruppo di alunni di una scuola elementare californiana ad un test di intelligenza. Indipendentemente dal risultato del test, riunì alcuni alunni all’interno di un gruppo, comunicando agli insegnati che si trattava di alunni molto intelligenti. Dopo un anno, Rosenthal valutò il percorso scolastico di questi alunni e verificò che tutti avevano migliorato il loro rendimento scolastico divenendo i migliori della classe.
Ciò era avvenuto poiché gli insegnanti, convinti delle abilità e competenze degli alunni, si relazionavano a loro stimolandoli nel loro interesse per gli studi. 
Il modo in cui, quindi, l’insegnante valutava inizialmente l’alunno modificava il suo atteggiamento nei confronti dell’alunno stesso.
In questo caso il risultato era positivo, ma l’effetto Rosenthal (o effetto Pigmalione) può avere anche dei risultati disastrosi se l’assunto di partenza è negativo “questo ragazzo è senza speranza”, “non è motivato”, “non gli piace studiare”, etc. 
In che modo questo concetto sociologico può rientrare nell’ambito della psicologia e riguardare il rapporto genitori/figli?
Quando viene a mondo un bambino, già a partire dal suo concepimento, se non da prima, i genitori iniziano a parlare di lui o di lei (“se avrò un figlio lo chiamerò…...”, “se nascerà una bambina sarà...”, e così via…). Ciò fa sì che il bambino nasca in un bagno di linguaggio, all’interno di un discorso nel quale il bambino è parlato, in cui il bambino infans, che non parla ancora, è inserito nel discorso dell’altro.
Questo discorso è portatore di un desiderio nei confronti del bambino, di aspettative e di frasi che lo concernono che determineranno il modo in cui lui crescerà.
Non è raro ascoltare genitori, nonni, parenti ed amici pronunciarsi al cospetto di un neonato “è bellissimo”, “tutto suo padre”, “tutto sua madre”, “è tranquillo”, “è nervoso” e così via…
Sono queste definizioni che l’altro dà del bambino sulla base di alcune sue percezioni e convinzioni che possono contribuire a quella che abbiamo definito Profezia che si auto avvera.
Ma in che modo può accadere questo?
Nel momento in cui un genitore dà una definizione del bambino: “è buono”, “è nervoso”, “ha un carattere deciso”, “è una peste” fin dai primissimi mesi di vita, il suo atteggiamento nei confronti del bambino stesso sarà influenzato da queste definizioni e dalle convinzioni soggiacenti.
Se la mamma definisce il bambino “disubbidiente” si relazionerà a lui a partire da questa convinzione e metterà in atto dei comportamenti che inevitabilmente metteranno il bambino nella condizione di disobbedire avverando la profezia iniziale, in un circolo vizioso difficile da rompere.
Nella mia pratica con i bambini molte volte mi è capitato di ascoltare dei piccoli che si definivano “monelli”, alla domanda “chi te lo dice?” la risposta è “la mamma, il papà, i nonni, etc.”, cioè l’adulto che si prende cura di lui. Non è il bambino che crede di essere “monello” ma sono gli altri che gli danno questo rimando. 
Quando un bambino si ritrova inserito in una definizione di questo tipo strutturerà la convinzione che sia quello il modo in cui l’altro vuole che sia e si comporterà di conseguenza. Il suo comportamento confermerà la convinzione iniziale dell’adulto e così via in una spirale senza fine.
Queste definizioni, inoltre, impediranno all’adulto di vedere ed ascoltare il bambino, schiacciandolo nella sua soggettività, considerandolo già saputo, conosciuto. La definizione nomina il bambino che si ritrova ingabbiato e spesso impossibilitato ad esimersi dall’essere esattamente come l’altro si aspetta che sia.
Non di rado mi capita di seguire degli adolescenti che per tutta la loro infanzia si sono ritrovati ad essere “bravi bambini”, “i più bravi della classe”, “i migliori” che durante quel periodo di stravolgimento che è l’adolescenza scoprono di essere diversi da come mamma e papà li vogliono, manifestando la loro sofferenza e il loro disagio con comportamenti autolesivi, antisociali, disturbi del comportamento alimentare, etc.

martedì 25 ottobre 2016

RELAZIONE DI COPPIA CON L’ARRIVO DI UN FIGLIO, VITA SESSUALE,MATERNITÀ E PATERNITÀ



Molto spesso nel discorso comune si pensa che, per la donna, la femminilità trovi la sua massima espressione nella maternità.

Questa convinzione è alla base di tutta una serie di problematiche che spesso i neogenitori si trovano ad affrontare, sia nella relazione con il proprio bambino, sia nella relazione tra i due partner stessi.

Tale convinzione è radicata in entrambi i sessi, infatti, succede che alcune donne, nel momento in cui iniziano una gravidanza, rifiutino categoricamente l’attività sessuale con il partner, altre vivono un calo del desiderio che se subito dopo il parto può essere legato a fattori ormonali, se si protrae nel tempo risente di un vissuto di incompatibilità tra sessualità e maternità.

La stessa convinzione, però, come già detto si ritrova anche in alcuni uomini i quali, nel momento in cui la propria compagna diviene “madre” non riescono più a considerarla “donna”, a considerarla “oggetto di desiderio” ed anche per loro può subentrare un calo libidico.

Ciò comporta non poche difficoltà poiché viene meno la dimensione di coppia, la relazione speciale ed esclusiva tra un uomo ed una donna; i genitori si ritrovano solo in una dimensione familiare, al cui centro c’è il bambino e la relazione tra di loro è una relazione in quanto “genitori di…”.

Diceva il famoso psicoanalista francese Jacques Lacan “un padre ha diritto all’amore e al rispetto dei proprio figlio solo se fa della sua donna l’oggetto causa del suo desiderio”. In parole semplici, il bambino non percepisce soltanto l’amore che i genitori hanno per lui, ma ciò che per lui conta ed ha una funzione importante nella sua crescita è l’amore che egli percepisce tra mamma e papà, è la convinzione di essere nato in una relazione di desiderio, desiderio che egli venga al mondo, desiderio di diventare madre e padre, ma anche desiderio di coppia, desiderio tra un uomo e una donna.

Purtroppo spesso assistiamo nel nostro lavoro a situazioni in cui una mamma perde qualunque interesse per il suo compagno, essendo concentrata solo sulla cura e sull’accudimento del bambino e a papà che invece di “recriminare” un po’ di attenzioni anche per loro, invece di svolgere la funzione alla quale sono deputati, la funzione paterna, si allontanano sempre di più, con tutto ciò che questo comporta relativamente alle crisi di coppia che si verificano dopo la nascita di un figlio.

La funzione paterna è quella funzione che un uomo assume su di sé nel momento in cui nasce suo figlio; prima ancora che una funzione educativa è una funzione normativa, è cioè una funzione che ha a che fare con la legge. Un padre deve introdurre delle norme, delle regole e la prima serve a regolare la madre rispetto al figlio, a introdursi in quanto elemento terzo nella relazione tra madre e bambino, relazione che spesso, in assenza di questa funzione può divenire simbiotica, fusionale, causando non pochi problemi per un sano sviluppo del bimbo. Basti pensare alla diffusa apprensione, all’ansia delle madri che talvolta, nei casi più gravi, arriva ad impedire al bambino la sperimentazione delle prime e fondamentali esperienze di vita; non di rado mi è capitato di incontrare madri che hanno alimentato il proprio bambino con cibi semiliquidi fino all’inserimento alla scuola materna per timore che soffocasse, o madri che tengono i figli in casa per timore della febbre o dell’influenza privandoli della possibilità di andare al parco a giocare, di prendere contatto con altri bambini, etc. La funzione paterna serve anche a questo: ad arginare l’ansia materna, a porre un limite e a fornire al bambino più spazio di sperimentazione.

Ma ciò è possibile quando il padre non molla circa il suo desiderio nei confronti della sua donna e le dice: “guarda che ci sono anche io, che io sono il tuo uomo e tu sei la mia donna, indipendentemente dal fatto che adesso siamo genitori del nostro meraviglioso bambino”.

Dunque essere dei genitori attenti al proprio bambino, dei genitori che riescano a garantire un sereno ed armonico sviluppo al proprio figlio non significa essere sempre presenti con lui, ma significa anche riuscire a ritagliarsi uno spazio solo per la coppia, in cui essere un uomo ed una donna, che si vogliono, che si desiderano e che sanno stare bene insieme anche senza la presenza del loro bambino. Questo spesso viene vissuto con sensi di colpa da parte dei genitori che pensano di star togliendo qualcosa al piccolo, ma invece non sanno che quello che gli fanno è un dono, il dono di avere due genitori tra i quali circola l’amore e il desiderio.

Dott.ssa Roberta La Barbera
Psicologa e Psicoterapeuta

lunedì 24 ottobre 2016

PAPA’ SEPARATI: COME GESTIRE I RIMPROVERI


Quando si parla di bambini è sempre molto difficile affrontare il tema della separazione dei genitori, tema molto vasto che comprende vari aspetti: psicologici, sociali, economici, etc.
Nel pensare al taglio da dare a questo articolo, ho deciso di affrontare un aspetto specifico: la gestione dei rimproveri durante i week end in cui i figli sono con il papà.
La domanda che tante volte mi è stata posta da papà separati è: “come posso continuare a svolgere la mia funzione di padre, come posso educare i miei figli, rimproverarli quando serve, se li vedo un week end sì ed uno no?”, “cosa devono pensare i bambini, li vedo poco e per quel poco tempo li rimprovero pure?”
Si assiste allora a situazioni in cui il papà diviene un “intrattenitore”, qualcuno che per quel poco tempo in cui vede i suoi bambini pensa a come far trascorrere quelle ore, quelle giornate, a quali attività proporre, a come non farli annoiare, a come poterli accontentare. Bandita ogni quotidianità, ogni pranzo o cena a casa, bisogna trovare sempre qualcosa di bello da far fare ai bambini!
È pur vero che ogni situazione di separazione è differente dalle altre, che ci sono dinamiche che sono assolutamente singolari e particolari per ogni coppia, però è anche vero che molti papà si ritrovano a porsi le stesse domande.
Cosa fare allora?
È giusto che un bambino figlio di genitori separati non abbia diritto ad essere educato dal padre oltreché dalla madre?
È giusto che il papà venga considerato solo colui che “mi porta al parco, alle giostre e a mangiare al fast food?”
Chi dice che il tempo che i bambini trascorrono con il papà debba necessariamente essere un tempo piacevole, sereno, senza intoppi, senza difficoltà?
Mai nessuna relazione genitori figli è stata priva di difficoltà, una relazione improntata al mero divertimento ed intrattenimento è una relazione fittizia e quindi inadatta ad assicurare uno sviluppo sereno del bambino.
Bisogna accettare il fatto che i bambini devono essere educati e se è il caso richiamati anche dal papà nei due o tre giorni che stanno insieme. Se il bambino manifesta dei comportamenti tali da richiedere l’intervento dell’adulto, il papà ha tutto il diritto di intervenire! Non solo ne ha il diritto, ne ha il DOVERE!
Il bambino ha bisogno del padre oltreché della madre e ne ha bisogno da un lato come colui che, insieme alla mamma, concorda le regole, pone dei limiti e li fa rispettare, ne ha anche bisogno come punto di riferimento, come colui al quale identificarsi, come modello da seguire, anche quando nell’adolescenza questo modello non andrà più bene. Se non andrà bene sarà comunque per il fatto che c’è stato e che ora il ragazzo adolescente vi si contrappone, alla ricerca di una propria identità. Ma non possiamo distaccarci da qualcosa che non c’è stato, non possiamo contrapporci ad un modello se non lo abbiamo avuto!
Spesso i papà vivono con molta sofferenza e pesanti sensi di colpa la lontananza dai figli, e ciò li porta a non assumere mai un ruolo “scomodo”.
Non si tratta soltanto di come un bambino possa vivere negativamente il rapporto con il papà se questi lo richiama e gli fa seguire determinare regole, si tratta anche di come il papà stesso vive questa funzione, la conflittualità che ha in sé.
Possiamo affermare che è già difficile per i papà di oggi assumere una funzione che nel tempo si è enormemente modificata; spesso c’è disorientamento, c’è confusione, il papà non è più il detentore della legge, autoritario, con il quale “non ci si poteva parlare, si faceva come diceva lui e basta!”; oggi il papà entra in una relazione emotiva ed affettiva importante, si occupa dell’accudimento del bambino, i ruoli all’interno della famiglia sono molto più sfumati, a volte si sovrappongono.
Come gestire tutto questo in una situazione di separazione?
Vediamo cosa deve fare il papà ed anche cosa deve fare la mamma.
Il papà deve accettare di essere, talvolta, anche il destinatario della rabbia e dell’aggressività del bambino. Ogni bambino che viene richiamato o che deve seguire determinate regole prova rabbia ed aggressività, fastidio, nervosismo, il papà deve essere in grado di accogliere questi sentimenti quando si presentano, anche se si sta insieme solo due giorni; accoglierli ed elaborarli insieme al bambino “comprendo che tu sia arrabbiato perché non ti permetto di trascorrere tutto il tempo davanti al videogioco ma sai che c’è una regola secondo la quale si gioca con il videogioco un’ora al giorno e non di più! E questo vale sia quando sei con la mamma che con il papà!”.
E veniamo adesso al ruolo che la mamma riveste in tutto questo.
Ci si può chiedere “e che c’entra la mamma? Il bambino è da solo con il papà!”.
Mi è capitato molte volte di papà che si lamentano di aver rimproverato il proprio figlio ed essersi ritrovati sotto casa l’ex moglie, chiamata dal bambino, perché dopo il rimprovero non voleva più stare con il papà.
Cosa deve fare una mamma quando il bambino viene richiamato dal papà e telefona in lacrime dicendo “non ci voglio stare più con papà, vienimi a prendere!”.
Che messaggio trasmette la mamma al bambino rispondendo positivamente alla sua richiesta?
Andandolo a prendere la mamma squalifica completamente il papà, agli occhi del bambino non lo autorizza ad agire in quella determinata maniera, ad educarlo, a richiamarlo se sbaglia.
Si può comprendere molto bene l’angoscia di una mamma che sente al telefono il bambino che chiede il suo intervento, ma tante volte per il bene dei nostri figli dobbiamo gestire l’angoscia e fare la cosa più giusta pensando a lungo termine e non a breve termine.
A breve termine io risolvo il problema, il bambino piange, non vuole più stare con il papà che l’ha richiamato, o che non lo ha accontentato, lo vado a prendere e tutto si rasserena.
E a lungo termine?
La mamma sta impedendo al proprio figlio di sperimentare la propria relazione con il papà. Come dicevo più sopra le relazioni vere sono fatte di momenti belli e momenti brutti e tutti noi lo sappiamo se pensiamo alle nostre relazioni con i nostri genitori. Allora perché privare il bambino di sperimentare una lite con il papà, una lite che poi porterà ad un chiarimento e ad una riappacificazione, e dunque ad una crescita del rapporto tra i due?
Ogni mamma dovrebbe domandarselo!
“Ecco ancora una volta è colpa delle mamme” qualcuno starà pensando! Non è così. Non è una questione di colpe. Non è di questo che si tratta. Si tratta del peso che la “parola” della mamma ha per un bambino, dell’importanza che per un bambino hanno le reazioni della mamma.
Se un bambino va con il papà e vede che la mamma è tranquilla, vivrà anche lui in maniera più tranquilla il distacco dalla mamma e il tempo trascorso con il papà. Se percepisce l’ansia della mamma, invece, anche lui si mostrerà più ansioso.
Se alla fatidica telefonata “vienimi a prendere” la mamma si mostra comprensiva, ascolta ciò che è successo, ma invita il bambino a risolvere da solo con il papà il problema che si è posto, farà un grande favore al proprio figlio, gli permetterà di costruire e vivere un rapporto autentico con il padre e ogni bambino ne ha il diritto!
E quando sono i papà a telefonare alle mamme dicendo “vienilo a prendere perché non vuole più stare?”.
Anche qui la reazione della mamma può essere fondamentale per riportare il papà ad assumere il suo ruolo, a gestire da solo la relazione con il bambino e a non “auto screditarsi” agli occhi del figlio. Cosa può pensare un bambino che ascolta questa telefonata “papà non vede l’ora di liberarsi di me”, anche se non è vero, anche se il papà lo fa perché non riesce a gestire la difficoltà da solo e cerca una soluzione semplice, il bambino penserà sempre che “in fondo papà non ci tiene poi così tanto!”.


Dott.ssa Roberta La Barbera
Psicologa e Psicoterapeuta

sabato 22 ottobre 2016

PERCHÉ DOBBIAMO SEMPRE SALUTARE I NOSTRI FIGLI QUANDO STIAMO USCENDO




Capita molto spesso che le mamme si sentano in difficoltà quando devono uscire da casa (per andare a lavorare, per andare a sbrigare delle faccende, etc.) e devono lasciare il proprio bambino con la baby sitter, con i nonni, con qualcuno che in quel momento si occupi del piccolo.
Questa difficoltà che la mamma prova nel separarsi dal proprio bambino e nel lasciarlo alle cure di qualcun altro si acuisce quando anche il bambino reagisce negativamente alla separazione dalla mamma, iniziando per esempio a piangere quando la mamma si allontana.
Quando capita questo, talvolta si cerca una soluzione al pianto del bambino andando via di nascosto.
Questa pratica, seppur possa sembrare utile per evitare che il bambino pianga, in realtà è errata dannosa per il bambino.

Ora vedremo perché.

Il bambino non piange fin da piccolissimo alla separazione dalla mamma; inizia a piangere, orientativamente verso gli 8 mesi. Questa è un’età del piccolo in cui si sviluppa la cosiddetta “angoscia dell’estraneo”. Molti genitori se ne saranno accorti “ma come mai fino a qualche tempo fa sorrideva a tutte le persone che incontrava e adesso invece se incontriamo qualcuno che non conosce si mette a piangere?”. Questo accade perché il bambino sta crescendo e va sviluppando il riconoscimento dei volti familiari e fa una selezione; al “sorriso sociale”, generico, indirizzato a chiunque, si sostituisce un sorriso più specifico, rivolto solo alle persone che il bambino conosce.
Questa è una tappa fondamentale dello sviluppo del bambino ed è importante che venga raggiunta, non si tratta di bambini che tutt’a un tratto non sono più “socievoli” ma di bambini capaci di discriminare tra il familiare e l’estraneo!

Ma cosa c’entra questo con la separazione dalla mamma, ci si potrebbe chiedere.

Prima di questa fase il bimbo pensa, potremmo dire, secondo la famosa frase “lontano dagli occhi lontano dal cuore”; cioè il piccolino non ha ancora la capacità di mentalizzare l’immagine dell’altro che si è allontanato e per questo quando è nei primi mesi di vita, di solito, non piange se la mamma si allontana.
A otto mesi circa, invece, “lontano dagli occhi non è lontano dal cuore” ed allora la mamma che si allontana, ma che resta come immagine nei pensieri del bambino, “dove va?”, “Perché non resta qui con me?”
Qui inizia l’angoscia di separazione dalla mamma, angoscia che spesso è anche reciproca, poiché anche la mamma tante volte si angoscia dal doversi separare dal suo bambino.
Ma è una separazione necessaria che però va gestita nel modo più corretto.
Sparire di nascosto, infatti, da un lato non fa piangere sul momento il bambino, ma che effetto ha su di lui? Il bimbo adesso sa che la mamma continua ad essere da qualche parte, ma ad un tratto non la vede più e non sa che la mamma ritornerà! Il piccolo può angosciarsi davanti a questo e sentirsi sfiduciato nei confronti di un altro che lo ha in quel momento abbandonato.
Allora è importante mettere in atto delle piccole strategie, accettando anche il fatto che all’inizio il piccolo potrà anche piangere, ma successivamente il pianto scomparirà ed il bambino avrà comunque fiducia nel ritorno della mamma e non si sentirà sconfortato ed abbandonato a se stesso.
La prima strategia da mettere in atto consiste nell’iniziare fin da piccoli a giocare a “cucù”. Il gioco del “cucù” è un gioco molto importante perché aiuta il bambino a comprendere che la sparizione dell’altro è solo momentanea, che l’altro sparisce ma subito dopo ricompare!
Un’altra strategia è quella di creare un rituale. I bambini sono sempre molto rassicurati dai rituali, per loro fare sempre la stessa cosa è un modo per controllare la realtà e per non essere soggetti passivi ma avere un ruolo attivo in questo. Il rituale implica qualcosa di già conosciuto, il che è sempre una rassicurazione. Ogni mamma può inventare il rituale che preferisce, dovrebbe utilizzare sempre le stesse parole “adesso la mamma va al lavoro, tornerà dopo e ti darà un grande bacio”, fare sempre la stessa azione “ora ci diamo tre baci e così ci salutiamo” e contare “uno, due e tre”, e così via! L’importante è che il bambino ascolti sempre le stesse parole e faccia sempre le stesse azioni. Questo gli farà capire che è arrivato il momento che la mamma vada via ma che poi tornerà. I primi giorni può darsi che piangerà, ma poi grazie al rituale il pianto non si manifesterà più.

Dott.ssa Roberta La Barbera
Psicologa e Psicoterapeuta

venerdì 21 ottobre 2016

4 CONSIGLI PER GESTIRE LA GELOSIA TRA FRATELLI

Nell’articolo precedente abbiamo parlato di come la gelosia sia un sentimento sempre presente tra fratelli e sorelle, sia nel caso della nascita di un fratellino o di una sorellina, sia nel caso sia il più piccolo ad essere geloso del più grande.

La gelosia tra fratelli non va misconosciuta, non si può “far finta che non esista”, al contrario, bisogna prenderne atto, tenerne conto, aiutare i propri figli ad esprimerla e imparare a gestirla.

Ecco allora dei piccoli consigli sul come fare per gestirla al meglio ed evitare pesanti ripercussioni nelle relazioni familiari.

Quando nasce un fratellino o una sorellina, in maniera quasi automatica il primogenito diventa “il grande”. Bisognerebbe sempre evitare di utilizzare questa espressione, anche perché spesso viene utilizzata per richiedere al bambino una prestazione, un comportamento, un atteggiamento più “maturi” della sua età, “dai il tuo giocattolo al fratellino, dai tu che sei grande!”. Questo provoca nel bambino una grande frustrazione che viene esternata tante volte con atteggiamenti regressivi (richiesta di aver messo di nuovo il pannolino, del ciuccio, del biberon, di stare in braccio, etc.). Questi comportamenti sono una richiesta di aiuto da parte del bambino e non vanno criticati o biasimati. Una modalità per farli cessare non è quella di dire al bambino “ma che dici? Tu ormai sei grande per queste cose” ma quella di sottolineare come egli abbia delle capacità in più rispetto al fratellino, sappia già parlare, camminare, giocare etc.

Un altro errore che comunemente si commette è quello di far subito dei confronti. Per quanto venga spontaneo farli nessun bambino si vive bene il confronto con l’altro, poiché immediatamente penserà che l’altro ha qualcosa che a lui manca. Se la mamma dice “lui da piccolo piangeva sempre, lui invece è un angioletto”, oppure “lui è disordinato, invece il piccolo è ordinatissimo” queste frasi non vengono ascoltate dal bambino come la constatazione di una differenza, magari è con questa intenzione che la mamma l’ha detta, ma come un giudizio di valore, in cui l’altro vale di più perché possiede una qualità che lui non ha. Questo vale sempre, sia nel caso della gelosia del primogenito, sia nel caso di quella del fratello minore.

“E’ il tuo fratellino e tu DEVI volergli bene!”. Questo imperativo, sempre abusato dai genitori, impone che il bambino debba amare chi gli ha usurpato il posto, chi è venuto a rompere un equilibrio e a catturare quelle attenzioni che erano tutte per lui. È un imperativo impossibile da realizzare tout court. L’affetto si costruisce, non è automatico e non bisogna pretendere che lo sia. Se il bambino esprime dei sentimenti negativi nei confronti del fratellino, anzi, gli si dovrebbe dire che lui non è obbligato a voler bene al fratellino, che di certo è obbligato a rispettarlo, a non fargli del male, ma non ad amarlo. L’amore tra i due fratelli arriverà senza bisogno che qualcuno lo imponga, anzi se il bambino si sentirà libero di non amare, alla fine paradossalmente potrà amare più liberamente.

Quando un dei due fratelli fa un dispetto all’altro o gli fa del male è spontaneo reagire alzando la voce, rimproverando e punendo.
Non è questa però la strategia più adatta poiché non fa altro che inasprire gli animi e i sentimenti tra i fratelli.
Questo non vuol dire che i bambini possano essere liberi di picchiarsi e di farsi del male, un comportamento sbagliato, pericoloso e violento va sempre bloccato fermamente. Bisogna però considerare che non è un comportamento che viene messo in atto per “cattiveria”, ma per una debolezza. Il debole è proprio chi fa del male, poiché non trova un altro modo per esprimere la sua rabbia e la sua sofferenza. Anche in questo caso, riuscire a far incanalare la rabbia e l’impotenza nel discorso, trasformando l’azione in parole, può essere più utile ed avere dei benefici a lungo termine rispetto ad un rimprovero o a una punizione.

Dott.ssa Roberta La Barbera
Psicologa e Psicoterapeuta

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giovedì 20 ottobre 2016

COME GESTIRE LA GELOSIA TRA FRATELLI



Una delle difficoltà che mi viene spesso esplicitata dai genitori è “come faccio a gestire la gelosia tra i miei figli?
Bisogna considerare che quando si hanno due o più figli la gelosia è un sentimento con il quale dover “obbligatoriamente” fare i conti.
Quando incontro qualcuno che mi dice “siamo fortunati, il nostro primogenito non è assolutamente geloso del piccolo” invito i miei interlocutori a soffermarsi un po’ su questa “presunta” fortuna, facendoli riflettere sul fatto che probabilmente una gelosia “non espressa” è una difficoltà in meno per il genitore che non deve gestirla ma è di certo un problema in più per il bambino che non può esprimerla.

La gelosia tra fratelli, infatti, è sempre presente anche quando non è manifestata!

In questo caso è più problematica, poiché resta inconscia e l’inconscio ha degli effetti anche se noi non ce ne accorgiamo.
Ci sono dei bambini che arrivano in studio con alcune sintomatologie (tic, agitazione, difficoltà del ciclo sonno-veglia, etc.) che regrediscono non appena il bambino, per esempio attraverso il gioco o il disegno, riesce ad esprimere il fastidio, l’aggressività che prova nei confronti del fratellino o della sorellina.
Spesso i bambini che presentano queste problematiche sono dei bambini molto buoni, accondiscendenti, ubbidienti, dei “bravi bambini”, molto suscettibili al giudizio dei genitori, che mai potrebbero permettere a se stessi di “comportarsi male”. Sono quasi sempre dei bambini con un ipercontrollo delle loro emozioni. Ma le emozioni provate, da qualche parte scalpitano per venir fuori ed essere manifestate, e qui vengono “in aiuto” i sintomi, che sono un modo per mostrare la loro sofferenza, spostando l’attenzione dal motivo reale ad un altro.
Quando nasce un fratellino o una sorellina, quindi, bisogna sempre incoraggiare l’altro figlio ad esprimere le proprie emozioni, anche, e soprattutto, se queste sono negative. Ciò le renderà meno pesanti, più gestibili e più tollerabili al bambino.
Come sappiamo bene, infatti, il non detto, tutto ciò che noi non possiamo dire è molto più pesante da sopportare di ciò che possiamo esprimere liberamente.
Far esprimere al bambino le proprie emozioni non significa, naturalmente, dargli il permesso di maltrattare il fratellino o la sorellina o farlo sentire una “vittima” della situazione, significa, piuttosto, fornirgli uno luogo di ascolto in cui possa sfogare la sua sofferenza, possa esprimere il suo disappunto, senza per questo sentirsi svalorizzato e senza intaccare la sua autostima.
A volte capita, infatti, che un bambino che mostri la sua gelosia venga in qualche maniera biasimato per questo “ma dai…non c’è motivo di essere geloso”, “non dirmi che sei geloso del fratellino”, etc. Queste frasi gli faranno pensare che la sua reazione sia sbagliata, che l’altro non si aspetti questo comportamento da parte sua, che lui non sia adeguato a far fronte a ciò che accade.
Se invece ci troviamo di fronte ad un bambino che esprime la gelosia, la rabbia, anche con manifestazioni di aggressività fisica nei confronti del fratellino, spesso tendiamo a rimproverarlo, attribuendogli una “cattiveria” che non è reale ma che al bambino può arrivare come un’etichetta “io sono cattivo”.
Ma la gelosia può essere anche del figlio minore verso il fratello o la sorella maggiore. Questo tipo di gelosia viene meno considerata, di solito, dai genitori. Nonostante questo, però, anche questa forma di gelosia può avere degli effetti sintomatici nei bambini.
In realtà, questi effetti sintomatici non rimangono relegati all’infanzia; infatti, se non sono opportunamente compresi da parte dei genitori e dunque adeguatamente gestiti, possono avere degli strascichi anche molto pesanti nell’età adulta.
Penso che sia capitato a tutti di conoscere degli adulti che presentano delle relazioni molto problematiche con i fratelli e con le sorelle e che anche in età adulta dichiarano la preferenza di un genitore per l’uno o per l’altro, le ingiustizie subite, le esclusioni, etc.
Per tale motivo è bene porsi fin da subito il problema, sia quando la gelosia è manifesta, sia quando non lo è.
Nel prossimo articolo fornirò delle indicazioni più precise sulle modalità più adeguate per far fronte a tale problematica.

Dott.ssa Roberta La Barbera
Psicologa e Psicoterapeuta

sabato 15 ottobre 2016

COME FARSI ASCOLTARE DAI PROPRI FIGLI SENZA URLARE



Sarà capitato a tutti di perdere la pazienza e di rimproverare il proprio figlio urlando. Perché lo si fa, ci si potrebbe chiedere? Le risposte possono essere le più svariate: perché non ascolta, perché non obbedisce, perché non segue le regole, fa i capricci etc.
Se ci facciamo caso, tutte queste risposte hanno a che fare con il comportamento o con l’atteggiamento del bambino stesso; la causa delle urla dei genitori sta in lui, nel bambino!!
Ma dobbiamo chiederci, invece, “perché a questi comportamenti io reagisco urlando? Cosa di questi atteggiamenti di mio figlio mi tocca a tal punto da dover urlare?”. Ci rendiamo allora conto che la necessità di urlare non è “causata” dal comportamento del bambino, tutt’al più è scatenata da esso, ma cosa ci sta alla base?
Facciamo un passo indietro!
Se è vero che tutti questi comportamenti del bambino portano un genitore a perdere completamente la pazienza, non è altrettanto vero che rimproverare urlando possa risolvere il problema.
Quando un genitore urla questo ha sul bambino più effetti.Innanzitutto un genitore che urla è un genitore che non riesce a padroneggiare la situazione, che ha perso il controllo e che quindi non si mostra più quel punto di riferimento fermo e deciso che il bambino si aspetta e di cui ha bisogno.
Inoltre, se qualcuno ci urla contro in qualche misura ci sta attaccando e quando ci sentiamo attaccati la prima cosa che facciamo è difenderci. Come ci si difende da qualcuno che urla? È semplice, basta non ascoltarlo, “staccare l’audio”; ciò rende quindi inutile e inefficace tutto ciò che viene detto mentre si urla. Se noi urliamo i nostri figli molto semplicemente non ci ascoltano!
Infine, urlare è una manifestazione di aggressività e ciò porta il bambino a pensare che il genitore non gli voglia più bene, porta al senso di colpa e all’umiliazione, tutti sentimenti che spesso producono una forte reazione di rabbia nei confronti dei genitori, creando poi un circolo vizioso.
Allora come fare per rimproverare senza urlare?Di certo ci vuole una grande dose di autocontrollo e di pazienza, ma ci sono dei piccoli accorgimenti che possiamo trovare e mettere in atto.
Quando capita di urlare chiediamoci sempre perché in quel momento lo stiamo facendo? Qual è il comportamento o l’azione del bambino che ci sta facendo urlare? Ad esempio “ha preso i colori e ha scarabocchiato la parete”. A questo punto possiamo chiederci “In che modo questa cosa poteva essere evitata?”, si possono trovare più risposte a questa domanda: “potevo evitare che i colori fossero a portata di mano”, “potevo spiegargli che non si scrive sulle pareti”, “potevo prendere un cartellone, appenderlo alla parete e permettergli di scarabocchiare solo quella parte”, e così via…
Questo esercizio mentale ci aiuterà a pensare sempre di più a lungo termine, cercando di prevedere le possibili conseguenze di determinati comportamenti.
Ma ormai il danno è fatto! E adesso? Possiamo chiederci “A cosa mi serve urlargli contro? E soprattutto a chi serve?”, di certo non serve al bambino, non è urlando che si eviterà il ripresentarsi di quel comportamento, forse serve un po’ di più come sfogo per il genitore, ma è uno sfogo che non è senza conseguenze, così come abbiamo visto in precedenza.
Come fare allora? Non lo si rimprovera? Certo che lo si rimprovera ma facendogli comprendere il perché quella determinata azione non va fatta. Prima del rimprovero, però, c’è un’altra cosa da fare: chiedere al bambino cosa abbia fatto, se comprenda cosa sia accaduto, perché lo ha fatto!Non sono domande inutili, che non servono a nulla, anzi! Sono domande fondamentali, perché la percezione che abbiamo noi adulti non è la stessa percezione che hanno i bambini. Dal punto di vista dell’adulto uno scarabocchio sul muro è un comportamento inaccettabile, è un dispetto, è qualcosa che sporca, ma noi non sappiamo se il bambino lo ha fatto pensando così di far vedere quanto sia bravo alla mamma, o perché gli piacciono i colori o perché è divertente.
Chiedete sempre al bambino di parlarvi di quel determinato comportamento, fate delle domande semplici, che egli possa comprendere ed ascoltate le risposte, la maggior parte delle volte rimarrete sorpresi perché non vi aspettavate quella risposta!
Solo dopo aver ascoltato le ragioni del gesto da parte del bambino potete spiegargli il perché non doveva farlo, quali sono le conseguenze di quell’azione e successivamente comunicare al bambino qual è il prezzo da pagare per quello che ha fatto!
Per ogni azione che si compie si paga un prezzo, ciò farà sì che il comportamento non si manifesterà più! È questo che fa estinguere il comportamento e non le urla!
Pensate a come un bimbo piccolo possa pagare un prezzo simbolico per quello che ha fatto, per esempio fatevi aiutare a pulire (anche se non ne è capace ancora, fate finta che lo stia facendo!), oppure per quel giorno non si potrà andare al parco, etc.
Naturalmente la “punizione” è simbolica, non bisogna arrivare a punizioni eccessive (salti la merenda, non ti faccio vedere più la tv, etc.), anche perché queste spesso vengono date nel momento della rabbia e successivamente non vengono messe in atto proprio perché sono esagerate! E purtroppo nulla di più sbagliato, perché perderete ogni autorevolezza e ogni credibilità agli occhi del vostro bambino. Una volta un bambino in seduta mi ha detto: “io non ho paura delle punizioni dei miei genitori perché tanto l’ho capito che mi minacciano soltanto ma poi non mi puniscono mai!”.
Ed ora torniamo alla domanda che ci siamo posti all’inizio. Quale parte di me così intima e forse anche inconsapevole il comportamento di mio figlio va a toccare al punto da farmi perdere il lume della ragione e farmi cominciare ad urlare?
A questa domanda non c’è una risposta univoca! Ogni genitore ha la sua storia! Ma è di certo un buon esercizio mentale da fare per cercare di conoscerci sempre un po’ di più e cercare di comprendere quanto di noi stessi sia implicato nel rapporto con i nostri figli!

venerdì 14 ottobre 2016

COME FAR CRESCERE UN FIGLIO SICURO DI SE’

In Gran Bretagna si utilizza l’espressione “genitori spazzaneve” per indicare quei genitori che come uno spazzaneve cercano in ogni modo di “aprire la strada” ai propri figli, “ripulendola” da ogni difficoltà, da ogni problema o ostacolo.
Vediamo questo atteggiamento così diffuso al giorno d’oggi e nella nostra società sotto due aspetti: il versante genitori ed il versante figli.

Sul versante genitori la domanda che sorge è “perché?”. Perché i genitori fanno di tutto per facilitare la vita dei propri figli, per trovare sempre essi stessi una soluzione alle problematiche del bambino o del ragazzo? Cosa li spinge a farlo?

È diffusa sul web una vignetta che confronta gli anni ’80 agli anni 2000. La vignetta è la seguente: vi sono due genitori, un bambino ed una maestra. Nella prima vignetta (anni ’80) i genitori, davanti alla maestra, si rivolgono al bambino, con un foglietto in mano, con espressione di rimprovero, chiedendo “cos’è questa nota?”, nella seconda vignetta (anni 2000) i genitori, sempre con la stessa espressione di rimprovero e lo stesso foglietto in mano, davanti al bambino questa volta, si rivolgono alla maestra, chiedendo “cos’è questa nota?”.

Gli insegnanti sanno bene a cosa si riferisca questa vignetta, lo vivono ogni giorno. Leggiamo delle notizie che ci lasciano alquanto perplessi, come ad esempio la storia di quell’insegnante che ha sequestrato il telefonino al ragazzino di terza media perché durante le ore di lezione guardava dei video dal contenuto pornografico e che contattata la famiglia per comunicare l’accaduto si ritrova davanti la madre del ragazzo accompagnata dal suo avvocato ed una denuncia per furto!!
Ci possiamo chiedere: cosa spinge una madre a compiere un’azione del genere?

È un discorso molto complesso che cerchiamo ora di semplificare.
Nella società contemporanea, come mai in altre epoche, società in cui vige una cultura del narcisismo, i figli spesso sono considerati dai genitori come “parte di sé”. Il figlio è considerato “un pezzo di me”, qualcuno che mi rappresenta, che con il suo fare esprime qualcosa di me! Questo modo di concepire i propri figli ha delle conseguenze devastanti. Vediamo perché.
I figli che si ritrovano con genitori per i quali essi sono solo un prolungamento del sé, vengono annientati, schiacciati nella loro soggettività. Non sono più persone separate dai loro genitori, ma in quanto loro “parti” devono rispondere ad una ingiunzione “devi essere come io voglio che tu sia”. Quante volte sentiamo dire “io non avuto nulla ed allora a mio figlio non deve mancare nulla”, “io non ho potuto fare sport ed allora mio figlio farà tutti gli sport che vuole” e così via! Chi ottiene una soddisfazione con questo modo di fare? La risposta è ovvia: il genitore!!

Spesso i genitori, nel loro processo educativo, piuttosto che condividere lo stile educativo dei loro stessi genitori “quando ero ragazzo i miei genitori mi facevano arrabbiare ma ora capisco che avevano ragione” si identificano ancora nel ragazzo frustrato e privato di qualcosa che erano ai tempi della loro infanzia o adolescenza! “I miei genitori mi proibivano di rientrare tardi la sera ed allora quello che io provavo mia figlia non lo deve provare e quindi può rientrare quando vuole”!

Non è detto che lo stile educativo dei nostri genitori fosse privo di errori, visto che tra l’altro ha prodotto tutto questo! Ha prodotto, cioè, una “non crescita”, un “non diventare adulti”, una generazione di “genitori bambini o genitori adolescenti” che abdicano al loro ruolo scomodo di educatori per identificarsi nel bambino e nell’adolescente stesso. Uno stile educativo, anche sbagliato, dunque, non è stato sostituito da un altro stile educativo, ma da un “abdicare” in favore di una genitorialità adolescenziale.

Ecco che allora viene più semplice comprendere il perché tali genitori siano degli “spazzaneve”, perché in effetti colui che viene protetto è sì il figlio, ma il figlio in quanto rappresentazione di se stessi. Ogni problema, ogni ostacolo non lo è solo ed esclusivamente per il figlio, ma per i genitori stessi.

Quante volte ci ritroviamo davanti a dinamiche patologiche tra genitori e figli relativamente allo studio! Tante volte mi è capitato nella mia pratica di mamme che fanno i compiti al posto dei loro figli, di mamme con il cellulare pronto a ricevere le tracce del tema in classe via sms o via whatsapp!

Spesso studiare è una domanda dei genitori, è un loro bisogno e i bambini ed i ragazzi lo percepiscono molto bene! Studiano per fare contenti mamma e papà oppure non studiano per fare arrabbiare mamma e papà. Lo studio rientra in una dinamica genitori-figli in cui se il bambino o il ragazzo è in linea con i genitori allora studierà, se si mette in contrapposizione allora non studierà, perdendo completamente di vista il fatto che lo studio riguarda soltanto se stesso e non la relazione con l’altro!
Davanti alle angosce del proprio figlio, normali in un processo di crescita, i genitori non riescono a rappresentare un punto fermo e deciso di riferimento ma si angosciano a loro volta, cercando quindi di risolvere il problema in prima persona non tanto per alleviare l’angoscia del figlio, ma quanto per alleviare la propria!

Se mio figlio ha problemi con i compagni non gli dico “figlio mio devi risolvertela da solo” ma vado io in prima persona, mi sostituisco a lui!

E a questo punto veniamo al versante figli.

Se è vero che è comodo avere dei genitori che ci risolvono tutti i problemi o che ci eliminano tutti gli ostacoli, è altrettanto vero che ciò ha un prezzo altissimo da pagare.

Il prezzo che si paga si chiama “autostima”. I genitori spazzaneve crescono dei figli sempre più insicuri di sé!
Perché? Cosa accade nella mente di un bambino e di un ragazzo?

Un genitore che si sostituisce a me nella soluzione dei miei problemi che messaggio mi sta dando? Che cosa mi sta dicendo? “Tu sei incapace”, “tu non sei all’altezza della situazione”!
Ecco cosa succede! Il bambino, il ragazzo penserà di non essere in grado, di avere sempre bisogno di qualcuno che lo aiuti nella risoluzione dei suoi problemi e ciò avrà sempre il valore di quella che si chiama in psicologia “profezia che si auto avvera”, più il bambino o il ragazzo si convincerà di questo più nella sua vita farà in modo di trovarsi in situazioni che confermino tale teoria, non sperimentandosi mai da solo, non rischiando mai di fallire, in breve non crescendo mai!

Cos’è la crescita, infatti, se non l’insieme di esperienze che ci portano ad uno sviluppo di noi stessi, esperienze positive ma anche, se non soprattutto, negative! Il bambino e l’adolescente hanno bisogno di sbagliare, di fallire, di commettere degli errori, solo così potranno imparare ad affrontarli, a farne tesoro. Solo così si potranno mettere in gioco e sperimentare anche il successo, il proprio successo e non quello dei genitori!

Evitando ai propri figli il fallimento, perché il fallimento di mio figlio è il mio stesso fallimento, gli impedisco allo stesso tempo di sperimentare il successo, perché anche il successo di mio figlio sarà il mio stesso successo! E mio figlio non potrà mai dire “è solo merito mio” ma sarà ogni volta costretto ad ammettere “è merito di chi mi ha aiutato”!

Dott.ssa Roberta La Barbera

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giovedì 13 ottobre 2016

I TERRIBILI DUE! COME GESTIRLI???



Art Tatà si avvale della collaborazione della Dott.ssa Roberta La Barbera, Psicoterapeuta e Psicologa, per organizzare degli incontri di Sostegno alla Genitorialità.
Il primo incontro verterà sui "Terribili Due", cioè su quel periodo della vita del bambino che va dai 18 ai 36 mesi che mette in grande difficoltà i genitori. E' un periodo di oppositività da parte del bambino, che punta a sottolineare la sua volontà e a ribellarsi a quella dei genitori. Vedremo come questo è, invece, un importante momento di crescita per il bambino, che i genitori devono solo imparare a conoscere e a gestire al meglio.

Per informazioni e prenotazioni
Dott.ssa Roberta La Barbera 3452197044 roberta.labarbera71@gmail.com
Claudia Chiaramonte 3927196060 claudia-cla@libero.it

Per visualizzare l'evento clicca qui